La giornata di Natale è stata funestata dalla notizia della morte di una donna in seguito all’aggressione dei suoi due Rottweiler. Come spesso succede la vicenda è stata archiviata senza che vi sia stato da parte dei media un approfondimento sulla dinamica che ha portato alla tragedia. Ce ne parla Diana Lanciotti, giornalista, scrittrice e fondatrice del Fondo Amici di Paco, associazione nazionale per la tutela degli animali, da tempo impegnata anche sul fronte dell’educazione cinofila come requisito fondamentale per una convivenza serena con i nostri quattrozampe. Il giorno di Natale a Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena, due Rottweiler hanno aggredito la loro proprietaria, che è morta per le ferite. E come per episodi analoghi che coinvolgono razze considerate pericolose si è scatenata la solita guerra tra chi le difende a spada tratta e chi ne auspica addirittura l’estinzione. Ne ho parlato altre volte, purtroppo, perché ogni tanto succede e quando succede il raziocinio va a farsi benedire e nascono accesi dibattiti, basati più che altro su prese di posizione scevre di qualunque barlume di cultura cinofila, lontane da ogni riflessione pacata, accompagnate dal solito tifo da stadio, la solita partigianeria che vede gli esseri umani azzuffarsi per qualunque questione, anziché cercare un confronto costruttivo. In tanti mi hanno chiesto di esprimermi, come già fatto in passato. Soprattutto gli allevatori e i proprietari di alcune razze, preoccupati per una recrudescenza dell’ostilità verso i loro cani, che nel 2003 portò l’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia a stilare la famosa lista di proscrizione delle razze definite “pericolose”, che suscitò le critiche di animalisti, veterinari, esperti cinofili e venne quindi ritirata. Ma dato che al Ministero della Salute non sempre si insediano delle aquile, ma il più delle volte burocrati compiacenti, c’è il rischio che sull’onda dell’emotività ci si ricaschi. Non è mai facile pronunciarsi quando le notizie vengono diffuse col massimo dello scalpore, senza il minimo approfondimento. Tanto che a distanza di una settimana non si sa nulla della dinamica dei fatti e probabilmente mai si saprà, perché una volta data una notizia in modo roboante si passa immediatamente ad altra, seguendo l’andamento schizofrenico e superficiale di gran parte dell’informazione. Sul sito Ti presento il cane, uno dei pochi in cui si fa cultura cinofila in modo serio e senza calarla tanto dall’alto, ho ritrovato un articolo di Valeria Rossi, compianta e preparatissima istruttrice cinofila che, a proposito del Rottweiler e dei giornalisti che scrivono di Rottweiler, col suo noto spirito pungente e intelligentemente dissacrante diceva: I giornalisti, quando gli arriva la notizia di un cane che ha morso un ragazzotto sui 15-16 anni, non si sognano MAI di chiedersi cosa e perché sia successo. Chiedono solo quant’era grosso il cane, e di che colore era. Se era piccoletto, pensano “merda” e lo schiaffano in merdesima pagina. Se era grosso, pensano “Evvaiiii!” e, se era fulvo, bianco o pezzato, lo sbattono in prima pagina col titolo “Pit bull impazzito sbrana bambino” (sotto i 35 anni sono tutti “bambini”, sopra i 41 sono tutti “anziani”: fa più scena e soprattutto fa più kanekillerkattivissimo). Se invece era nero o nero-focato (ma anche marrone o grigio, a volte), lo sbattono in prima pagina col titolo “Rottweiler impazzito sbrana bambino”. L’importante è che sia impazzito, perché i giornalisti non concepiscono proprio che un cane possa mordere anche senza dare i numeri: il che dovrebbe rendere evidente che i numeri li danno loro (…) In realtà il rott (se correttamente allevato, educato e socializzato… e se non avete intenzione di badare a tutto ciò siete dei deficienti che non dovrebbero MAI avere cani superiori ai 3 kg) è un amabile cagnone che non sbrana mai nessuno (tantomeno i bambini, che adora), a meno che uno non sia entrato in casa sua senza permesso, o non abbia alzato le mani sui suoi umani, o non l’abbia sfidato in qualche modo, o non gli abbia fatto girare le palle. Insomma, è un cane da difesa (da http://www.tipresentoilcane.com/2011/06/06/il-vero-standard-del-rottweiler/) Nell’attesa temo vana di saperne di più su quanto successo a Concordia sulla Secchia, cercherò di dirvi qual è il mio pensiero. Mi dispiace per i proprietari che mi hanno fatto pressioni affinché il mio verdetto sia un’assoluzione piena: come ho già chiarito in passato non scrivo su commissione o per compiacere chi me lo chiede. Scrivo ciò di cui sono convinta. E qua, credetemi, non è facile avere delle certezze… certe. Non sappiamo quasi nulla di quanto è successo, però sappiamo che i due cani sono entrambi maschi, di 2 e 6 anni, che l’anno scorso avevano aggredito e conciato male il giardiniere e morsicato la stessa padrona. Potremmo perciò dire che non si è trattato di un fulmine a ciel sereno… Ah, un inciso: da tempo, dopo un’iniziale ritrosia, ho sdoganato i termini “padrone” e “proprietario”, che considero i più consoni a definire realisticamente il rapporto tra noi e i nostri cani. Per togliere qualunque accezione negativa a queste definizioni basta pensare a una proprietà come a un tesoro da accudire, custodire, di cui essere responsabili, e intendere “padrone” come derivato da “padre”, cioè un buon genitore che si impegni a far crescere la propria prole nell’amore e nel rispetto reciproci. Possiamo anche chiamarli e considerarli figli, i nostri cani, ricordandoci però che figli non sono. Non sono nemmeno nostri simili, e men che meno nostri fratelli: siamo specie diverse. Noi siamo responsabili delle loro vite, e i loro destini sono nelle nostre mani. Essere padrone significa esattamente questo: prenderci a cuore il benessere fisico e mentale di creature che abbiamo reso totalmente umanodipendenti, verso le quali esercitiamo pieni poteri. Cosa di cui dobbiamo essere consapevoli, senza mai approfittarne ma con equilibrio e senso di responsabilità. Invece a complicare le cose è proprio quell’equivoco piuttosto diffuso sul nostro ruolo all’interno del binomio uomo-cane, quel voler abdicare al ruolo di guida, di leader. Quel voler essere amici più che padroni, pari anziché diversi, amati anziché rispettati, condiscendenti anziché determinati. È proprio a essere rispettati che dovremmo puntare. O addirittura temuti, per certi aspetti, che però non significa essere duri, violenti, castigatori. Se il nostro cane non nutre nei nostri riguardi rispetto e timore, e per timore non intendo paura e men che meno terrore, il rischio è che finisca per prenderci… sotto gamba e approfittare degli spazi e delle concessioni che gli elargiamo credendo di renderlo felice. Siamo sempre così tanto e troppo presi dalla nostra vita frenetica, dall’ossessione per il risultato, prigionieri di una perenne ansia da prestazione in quasi tutto ciò che facciamo (nel lavoro, nello sport, nei rapporti con gli altri) che crediamo di poter fare altrettanto con il nostro cane: creare il massimo del rapporto dandogli… il massimo. Dandogliele cioè tutte vinte, lasciandogli spazi e prerogative che non dovrebbero essergli concessi. Non accettiamo di essere il suo “padrone”, ma vogliamo essere il suo amico, il suo genio della lampada che, blandito con una leccatina e una zampatina affettuosa, esce per esaudire tutti i suoi desideri. Non accettiamo quella che io chiamo la “caninità” dei nostri cani, con tutto quel che ne fa parte: quel bagaglio di istinti, di genetica, di esperienze acquisite o ereditate. Ed è lì che spesso sbagliamo ed è lì che, spesso rispondendo a un nostro comportamento scorretto, alla nostra incapacità di capire determinati segnali (che da parte loro sono sempre chiarissimi, mentre noi non li sappiamo vedere e interpretare), loro sbagliano. Perché siamo noi a indurli a sbagliare, a non comportarsi come vorremmo, come il contesto urbano e non più rurale in cui oggi viviamo e li facciamo vivere richiederebbe. Sul fatto che i cani non abbiano colpe quando un loro comportamento è in contrasto con le nostre regole e le nostre aspettative ho scritto addirittura un libro: I cani non hanno colpe. E prima ancora, convinta come sono che l’educazione dei nostri cani sia indispensabile se vogliamo creare un rapporto basato sulla fiducia e sul rispetto, avevo scritto L’esperta dei cani in collaborazione con Demis Benedettti, il fondatore della scuola cinofila New Thought. In copertina, nella seconda edizione, ho messo guarda caso un cucciolo di Rottweiler dall’espressione irresistibile. È così: i cuccioli di Rottweiler sono dei pupazzotti di una bellezza disarmante. E spesso chi li sceglie da piccoli non ha idea di che cosa diventerà quel tenero cucciolotto, e quanta esuberanza, quanta forza si nasconda sotto quella potenziale macchina da guerra che un Rottweiler adulto diventa (faccio notare che ho scritto potenziale macchina da guerra, intendendo che in mani sbagliate può diventarlo, non che lo diventi necessariamente). Di un gatto non ci meravigliamo se giocando ci graffia. Capita, e spesso è la conseguenza di un fraintendimento, di un nostro gesto sbagliato che gli provoca paura o fastidio. E se succede, siamo generalmente disposti ad accettarlo come qualcosa che va messo in conto quando si ha a che fare con il… cugino della tigre. Non abbiamo difficoltà ad accettare la felinità dei nostri gatti come qualcosa di imprescindibile dalla loro natura. Invece non sappiamo accettare la caninità dei nostri cani. Tendiamo a ignorarla, negarla, come se il solo fatto di averli allevati sin da cuccioli a suon di coccole e premietti li renda immuni da comportamenti propri della specie. No, il cane no: da lui non accettiamo che faccia il cane e risponda agli istinti primordiali che fanno parte del suo corredo genetico. Ma come, il nostro “migliore amico” che ci morde, si rivolta contro di noi o, ben che vada, ci disobbedisce se non vogliamo che salga sul divano, che morda le gambe del tavolo, che ci distrugga le ciabatte, che scavi le buche in giardino, che abbai al postino? No, non sappiamo accettarlo. Accettare la caninità, esserne consci, invece, significa essere in grado di prevedere eventuali comportamenti sgraditi o addirittura pericolosi, perché sappiamo che sono possibili, ed essendo possibili dobbiamo essere in grado di prevenirli e neutralizzarne le conseguenze. E invece, come siamo disposti a mettere in conto un graffio del gatto se facciamo qualcosa che lui non gradisce o fraintende, non siamo altrettanto disposti ad accettare il morso di un cane o un suo atto di ribellione. Non sto dicendo che “dobbiamo” accettarli, beninteso, ma che dobbiamo essere consci che può capitare e, se capita, è sempre e solo colpa nostra, che non abbiamo colto i segnali o, come nel caso di razze particolarmente volitive, non siamo capaci di incanalare le loro naturali propensioni (alla difesa, al combattimento) illudendoci di aver a che fare con peluche o soldatini pronti a obbedirci e compiacerci anche quando noi facciamo di tutto, seppur involontariamente, per scatenare comportamenti indesiderati. Essere “amici” dei nostri cani è una bella utopia, soprattutto nel caso di razze di grande temperamento, come quelle da difesa usate anche per i combattimenti tra cani. E anche se per fortuna noi non li facciamo combattere, dobbiamo ricordare che la loro origine è quella, che certe razze sono state selezionate proprio per difenderci (da predatori come i lupi, gli orsi, i grossi felini) o per soddisfare gli appetiti sanguinari di uomini che si sentono tali se il loro cane fa a brandelli la carne di un altro cane. Non è che da oggi dobbiamo avere paura dei nostri cani. Dobbiamo, più semplicemente, sforzarci di capirli, capirne la vera natura, essere consci di una dose di imprevedibilità che fa parte del loro essere cani. Quella stessa imprevedibilità che ammettiamo e accettiamo nel gatto e che fa parte della natura di qualunque essere vivente, anche del più pacifico su questa terra. Persino una pianta, pur rispondendo a determinate specifiche, cresce in modo imprevedibile. E allora cos’è che ci fa credere che un cane possa attenersi a comportamenti schematici, a impostazioni che esistono solo nella nostra mente e non di certo nella sua, se non la nostra ignoranza e la nostra presunzione? Perché pretendiamo da loro la perfezione, quando noi per primi ne siamo ben lontani? Perché da loro pretendiamo un livello di resilienza (massì, usiamo un termine tanto alla moda e inflazionato, una volta tanto) infinito, quando in realtà li costringiamo a … Leggi tutto Rottweiler sotto accusa
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