La vendetta dei broccoli
(…) Poi il cinghiale scartò di una decina di metri, ma i cani gli impedirono la fuga da quella parte e lo riportarono verso di lui, dritto come su un binario.
«Dai, spara, spara!»
In fronte o dritto sul muso? si chiese Lorenzo. Sul collo o in mezzo al petto?
Premette il grilletto e chiuse gli occhi. Quando li riaprì il cinghiale vacillò un attimo, ma fu appunto solo un attimo, come se una zampa gli avesse ceduto.
Non l’ho preso, pensò Lorenzo. Non l’ho preso.
Si voltò verso il padre, sperando che ci provasse lui. Invece Igino fissava il cinghiale come se non ne avesse mai visto uno.
Lorenzo riportò gli occhi sulla bestia.
Aveva rallentato, traballava.
L’ho preso a una zampa, pensò un attimo prima che il cinghiale crollasse a terra in una nuvola di polvere.
«Uaauh!» gridò Igino dandogli una manata colossale sulla schiena. «L’hai preso! L’hai preso! Mio figlio ha fatto secco il cinghiale! Viva Maria!» gridò di nuovo. «Forza, dai, dillo: viva Maria!»
«Viva… viva Maria», farfugliò Lorenzo, con voce increspata. Sapeva che, secondo l’usanza, il cacciatore che colpisce il cinghiale deve gridare “Viva Maria”, sia per ringraziare la Madonna sia per avvisare il resto del gruppo d’aver ucciso la preda. Ma mai più avrebbe pensato che toccasse a lui.
«Dai, gridalo più forte: viva Maria!» lo incitò di nuovo Igino. Fu lui il primo a correre verso l’animale: i piedi di Lorenzo erano inchiodati al terreno. Solo quando la nuvola di polvere si diradò, il ragazzo riuscì a fare qualche passo.
Intorno al cinghiale erano già in dieci, ma quando lui si avvicinò si aprirono in due ali per farlo passare. Lo guardavano con un rispetto che aveva visto solo una volta, negli occhi di suo padre quando, dopo una delle loro solite discussioni, con una voce dura che Lorenzo non le aveva mai sentito la madre gli aveva detto: «Adesso basta.» Non sapeva che cos’avesse causato quella discussione, ma sapeva che quella era stata una delle poche volte in cui la madre l’aveva vinta e il padre si era mostrato intimorito. Addirittura preoccupato.
«Dai, avvicinati», gli disse Igino, allungando una mano per stringergli una spalla e spingerlo in avanti.
Il cinghiale era ancora vivo.
Il proiettile gli aveva perforato la gola, squarciandola. Il corpo tremava, come scosso da singhiozzi, e le zampe annaspavano in cerca di una presa per potersi rialzare. Il muso si muoveva avanti e indietro, come se il bestione si stesse preparando a prendere la parola, e la zanna creava solchi profondi sul terreno. L’unico occhio visibile, piccolo e ancora vispo, non aveva nulla di maligno. Pareva più che altro spaurito e si muoveva all’impazzata come la pallina di un flipper.
«Oddio… è vivo!» gridò Lorenzo. Era stato un urlo straziante, e fece voltare tutti gli uomini che gli stavano vicino e accorrere quelli che stavano sopraggiungendo.
«Eh, sì, è stato un colpo da maestro», commentò Igino. Poi, gonfiando il torace, gli circondò le spalle con un braccio. «Sei stato bravo, figlio.»
«Ma… è vivo», ripeté Lorenzo.
«Già, ma non ne avrà per molto», gli rispose Adelmo sogghignando. Il suo viso arcigno si scompose in una risata macabra che gli fece accapponare la pelle.
Un cacciatore della squadra toscana si chinò sul cinghiale. Con una mano gli sollevò una zampa posteriore e con l’altra estrasse di tasca un grosso coltello.
«Ehi, ma cosa fai?» urlò Lorenzo.
«Gli taglio via le palle», rispose l’altro affondando il coltello. «Spettano a te che l’hai fatto fuori.»
Lorenzo si divincolò dall’abbraccio del padre e puntò la carabina verso l’uomo.
«Fermo! Non provarci.»
L’uomo buttò via il coltello e rinculò rischiando di cadere all’indietro. «Ehi, ragazzo, ma sei impazzito?»
«Non vedi che è vivo?» La voce di Lorenzo tremava.
«E allora? Tra pochi minuti sarà morto. Cosa credi di fare?»
«Impedirti di fargli del male.» Lorenzo continuava a tenergli la carabina puntata sul petto. Non si sentiva del tutto padrone di sé stesso, anzi non gli sembrava di essere il Lorenzo Giudici di sempre; ma qualcosa dentro di lui gli diceva di impedire a quell’uomo di infierire su quell’animale che ansimava in cerca degli ultimi litri d’aria.
«Dai, ragazzo, mettiti tranquillo», lo esortò il padre piazzandosi al suo fianco. Fece per portargli via la carabina, ma Lorenzo lo allontanò con una spinta.
«Ma non vedete che è vivo? Sta soffrendo. Fate qualcosa…»
Adelmo si strinse nelle spalle.
«Per forza soffre», bofonchiò tra i denti. «Che cosa credevi? Che una pallottola in gola fosse una carezza?»
Il padre scoppiò in una risata a cui si unirono tutti gli altri, tutti meno quello che aveva cercato di tagliare i testicoli del cinghiale e ora adocchiava il coltello senza decidersi a recuperarlo.
«Sentitelo!» La voce di Igino grondava sarcasmo. «Sta soffrendo! Ma che cosa dici? Da quando in qua un cinghiale soffre? È una bestia, mica un essere umano!»
Lorenzo lo fissò torvo, poi il suo sguardo si posò di nuovo sull’animale. Erano passati almeno cinque minuti e, se non fosse stato per la macchia di sangue che si era allargata sul terreno inzuppandolo, sembrava ancora pieno di vita ed energia.
«Può sopravvivere?» chiese in un sussurro.
Il padre si produsse in un’altra risata.
«Ma sei matto? Con quel proiettile che gli hai ficcato in gola? È già tanto se è ancora vivo. Dai, lascia fare a noi.» Lo scansò e recuperò il coltello lasciato cadere dal cacciatore toscano.
«Bisogna finirlo, allora», disse Lorenzo.
Il padre si voltò a guardarlo spazientito. Ansimava.
«Ma perché sprecare una cartuccia? Non vedi che se n’è quasi bell’e andato?» Gli si piazzò davanti e, mettendo un piede sulla testa del cinghiale per impedirgli di muoversi, si accinse a completare l’opera che l’altro aveva lasciato a metà.
Appena Igino affondò il coltello nella sua carne, la bestia ebbe un fremito, dando per un istante l’impressione di essere sul punto di rialzarsi.
«Fermo!» gridò Lorenzo. «Basta!» urlò di nuovo e con una gomitata spinse il padre, mandandolo a gambe all’aria. Poi appoggiò la canna del fucile sulla testa del cinghiale, chiuse gli occhi, contò fino a tre e sparò.
Nessuno si era mosso.
Igino Giudici si rialzò. Con la mano che gli tremava si accese una sigaretta. Era terreo.
«Va bene, va bene», sussurrò tra i denti togliendosi la polvere dai pantaloni. Non lo guardava in faccia, e la voce era quella delle occasioni brutte. «È la prima volta e sei scosso. Ma adesso è finita. Possiamo spartirci il bottino.»
Mentre un paio di cacciatori lavorava di coltello attorno al cinghiale, Lorenzo si allontanò.
Il resto della squadra si radunò intorno ai due uomini e al bestione, commentando e scommettendo sul peso e sull’altezza che poteva avere.
Nessuno più badava a Lorenzo. In silenzio, il ragazzo si avvicinò a una quercia, afferrò la carabina per la canna e con colpi furiosi la sbatté più volte contro il tronco.
Tutti i cacciatori si girarono.
Ammutoliti, restarono a guardarlo mentre riduceva l’arma in mille pezzi. E anche quando prese a calci ciò che ne restava, sparpagliandolo in giro, nessuno si mosse.
Da La vendetta dei broccoli
Capitolo 2 (la caccia al cinghiale)