Il #coronavirus e il valore della rinuncia
Il Coronavirus ci sta cambiando la vita. E siamo solo agli inizi. Tralascerò per un attimo l’aspetto politico, limitandomi a ricordare che siamo (mal)governati da una banda di cialtroni, abusivi, impostori che antepongono la loro sporca politica alla salute dei cittadini. Inetti, dilettanti allo sbaraglio che non ne hanno azzeccata una e per un odio ossessivo verso gli avversari politici hanno (o peggio: non hanno) preso decisioni che avrebbero tutelato la nostra salute.
Un po’ per non… spezzare i fili della “Via della seta” (che tanto si stanno sbrindellando da soli), un po’ per i loro immondi calcoli politici, un po’ per la loro abissale incompetenza, i nostri (mal)governanti hanno messo a rischio un’intera popolazione. Popolazione di cui è evidente che gli frega meno di una fetta di salame irrancidita, visto che quello che conta è continuare ad aprire e “accogliere”, con papale benedizione.
Sull’accoglienza, chi mi legge da tempo sa qual è la mia idea, sa quanto ho scritto su quelli che definisco “gli aguzzini dell’accoglienza”: tutti coloro che, attivamente o in complicità, alimentano il traffico di esseri umani. Credo fermamente che ogni uomo abbia diritto di vivere felice nel proprio luogo di nascita, ed è un atto contro natura e contro i loro diritti favorire (con l’inganno) l’esodo dei popoli africani verso paesi che non saranno mai in grado di dare loro ciò per cui sono stati illusi. Questo sistema marcio fa sì, oltretutto, che importiamo non solo infelicità, ma anche malattie. E ben prima che scoppiasse il “caso” Coronavirus (che arriva dalla Cina ma chi ci dice che, visto che controlli non ne sono stati finora fatti sui “migranti”, non abbia preso anche la strada dell’Africa), scrivevo:
“Nessuno si chiede come mai, da anni, ogni momento dell’anno è buono per beccarsi “l’influenza”? Basterebbe chiedere a qualche infettivologo, di quelli che non parlano o non li lasciano parlare perché non sarebbe “politicamente corretto”…. Nessuno si chiede come mai per andare nei paesi africani noi dobbiamo vaccinarci, mentre loro possono venire qua a trasmetterci i virus con cui convivono quasi pacificamente? Non è questione di razzismo, ma di realismo. La verità è che questi poveri spiantati, vittime a loro volta di un disegno tutto giocato sulla loro pelle, di cui sono incolpevoli pedine, potrebbero essere aiutati là dove sono nati e dove hanno diritto di restare e vivere bene. In dignità, salute e felicità. Nostre e loro.”
E, ancora:
“Ma… proviamo a pensare: che cosa c’è di più caro per un essere umano della propria famiglia, della propria terra, della propria casa? C’è diritto più sacrosanto di poter vivere liberamente dove si è nati e non dover essere obbligati ad andarsene? Salvo casi rari, nessun essere umano ama essere sradicato dalla propria terra natia, nessuno si allontana felicemente dalle proprie origini… a meno che non vi sia costretto: dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, dal bisogno di trovarsi un lavoro. Costretto, appunto, da condizioni avverse, che sono al di fuori di lui e della sua volontà.
E così come la maggior parte di noi “occidentali” è felice quando nel luogo dove è nato può trovare famiglia, lavoro, amicizie, perché la stessa felicità non può appartenere anche a coloro che vogliamo a tutti i costi sradicare per portarli in mezzo a noi, a condurre un’esistenza da derelitti, senza la dignità di un lavoro, di una famiglia, di un ruolo sociale?
Solo noi “occidentali” abbiamo diritto di realizzarci come esseri umani in casa nostra? E perché, invece di essere vittime di un disegno che parte da lontano e incombe sulle loro teste e si accanisce sulla loro pelle, i popoli africani non possono trovare la felicità là dove sono nati, e devono essere costretti a venirsene via da CASA PROPRIA, ed emigrare in posti dove difficilmente saranno felici ma rimarranno degli spiantati a vita? Perché non ci chiediamo una buona volta che diritto abbiamo noi, noi che ce ne stiamo comodi e beati a casa nostra e guai se qualcuno si sogna di mandarci via, di credere che gli Africani che vengono via dall’Africa qua da noi possano essere felici? Privandoli della loro vera identità, della loro terra, delle loro radici, li stiamo condannando all’infelicità. Fingendo di liberarli, li stiamo imprigionando nell’ipocrita trappola dell’accoglienza.
Perché invece, visto che le risorse ci sarebbero, non li aiutiamo a rendere accogliente la loro vera casa, cioè l’Africa, un continente meraviglioso e pieno di risorse che potrebbe rendere felici tutti gli Africani?
E invece no: in Africa vogliono fare affari i Cinesi, le multinazionali, o vogliono godersela solo i turisti che ci vanno con la solita mentalità colonialista, vedendone solo la parte romantica e folcloristica e mantenendo il loro senso di superiorità verso gli Africani. Poi se ne tornano a casa, dichiarandosi folgorati dal leggendario “mal d’Africa” e facendosi belli dell’essere stati in un posto tanto esotico e selvaggio.
Ci vedo tanta ipocrisia, tanto egoismo, tanta (sporca) politica, in tutto questo. Tanto razzismo mascherato da pietismo.
Io credo che gli Africani, come tutti i popoli, abbiano diritto di essere padroni a casa propria e di poter godere delle risorse di cui la loro Africa è ricchissima. Illuderli (che equivale a costringerli con l’inganno) che qua si stia meglio è un colossale e abominevole imbroglio. Noi qua stiamo bene perché ci siamo nati. Pure loro dovrebbero stare bene dove sono nati. Il loro diritto è quello. Non possiamo negarglielo, ma dobbiamo aiutarli a essere felici e a mantenere la loro dignità in casa propria.
Se poi qualcuno deciderà lo stesso di venire da noi, ben venga. Quella sarebbe davvero integrazione, tra pari.
Purché non sia un tragico esodo creato con l’inganno e le falsi illusioni.”
Ma, come ho detto, non è dell’aspetto politico o geopolitico che voglio parlare. Voglio parlare dell’approccio che stiamo avendo e che dovremmo avere verso questa catastrofe annunciata che chi doveva non ha saputo tenere fuori dalle nostre porte.
Non ho mai frequentato i social (non ho un account Facebook, per esempio), però da un mese sto sperimentando Twitter che, oltre a proporre le notizie più aggiornate di tutte le agenzie di stampa, ha l’innegabile pregio di metterti in contatto diretto e in tempo reale con tante persone con cui non avresti altro modo di interagire: politici, giornalisti, scrittori, imprenditori. È interessante leggerne, condensato in una sola frase, il pensiero su quel determinato argomento che ti appassiona. Perché poi, se ne hai voglia, quella frase ti induce a un ragionamento, a un approfondimento, a una riflessione.
Lasciamo stare che pure Twitter, come del resto Facebook, dà la stura ai classici “eroi della tastiera”, consentendo loro di sfogare il loro odio, le loro frustrazioni, la loro malvagità. Lasciamo stare. Ogni medaglia ha il suo rovescio.
Vorrei invece soffermarmi sullo spaccato della società che esce da Twitter in questi giorni di preoccupazione per l’arrivo del Coronavirus.
L’altro ieri leggevo di genitori “in subbuglio” davanti alla decisione di mandare o non mandare i figli in gita scolastica a Venezia. Per fortuna ieri le autorità della regione li hanno tolti dall’impasse vietando qualunque evento pubblico e chiudendo le scuole. Se non fosse arrivata una decisione dall’alto… posso solo immaginare l’ambascia di quei genitori: “Dico di no al pargolo, causandogli una ferale delusione, oppure lascio che vada, mettendo a repentaglio la sua salute?”
Un bel dilemma, vero?
In realtà trovo un’abnormità demenziale che un genitore, davanti a un’emergenza come quella che stiamo vivendo, possa anche solo soffermarsi su questi dubbi. Credo invece che l’occasione sia propizia per insegnare ai propri figli il valore della rinuncia, del sacrificio e il senso di responsabilità. Verso la vita degli altri ma anche la propria. Un’occasione per impartire una lezione di vita a ragazzi che, in tanti casi, sono abituati ad avere tutto senza il minimo sforzo.
Il fatto è che ormai il nostro modo di vivere è impostato proprio sull’assioma: voglio, quindi posso. Voglio, quindi ho il diritto di avere. Possibilmente, appunto, con il minimo sforzo. Viviamo nella convinzione che tutto ci sia dovuto solo perché lo vogliamo. Come quando giriamo il rubinetto dell’acqua e ci aspettiamo di vederla sgorgare immediatamente. Ci rimarremmo male se così non fosse. O quando schiacciamo l’interruttore e ci aspettiamo che la lampadina si accenda all’istante. Pretendiamo e subito otteniamo. Solo diritti e nessun dovere.
E invece nella vita dovremmo (dovremo, temo, a causa del Coronavirus) capire e accettare che non tutto è così scontato, non tutto è così dovuto, non tutto è così importante. Dovremmo imparare a dare delle priorità, a stabilire ciò che veramente conta. Sfrondare, selezionare. Senza considerarla una grave rinuncia, ma piuttosto un’importante opportunità di mettere un po’ di ordine nel caos della nostra vita. Una vita dove i valori umani sono troppe volte soppiantati dal fare e dall’avere, dove non ci si sofferma mai a riflettere se col nostro modo di vivere agitato e di corsa stiamo portando via qualcosa agli altri (i nostri cari) e anche a noi stessi.
Viviamo in un società in cui il lavoro è (giustamente) un valore fondante, un diritto sacrosanto che, oltretutto, nobilita l’uomo e lo rende (almeno in teoria) libero. Però esiste anche una dimensione interiore, sociale, familiare che spesso il lavoro, o meglio l’ossessione che a volte il lavoro diventa, ci fa dimenticare.
Per carità, non sto invocando la “decrescita felice”, però non ho mai capito perché si debba sempre e solo parlare di “crescita” e PIL, e quella volta che il PIL non cresce come si pensava diventi una tragedia. Se la popolazione non cresce, perché il PIL deve continuamente aumentare? Abbiamo sempre davvero bisogno di accrescere i consumi e i beni materiali di cui strabbondiamo? So che è… economia spicciola, la mia. Però dove può portarci questa continua corsa verso una crescita di cui non si vede mai la fine?
Abbiamo sempre bisogno di raccogliere tutti i fiori che sbocciano nel prato? O dobbiamo incominciare a pensare che un bellissimo fiore, una volta raccolto, non potrà più abbellire il nostro giardino?
Altro esempio, su Twitter: una persona che ha un’azienda che produce prodotti per l’estero è preoccupatissima, perché teme che se ”arriva il coronavirus” la obbligheranno a chiudere bottega. E come fa a consegnare la merce e rispettare le scadenze? Ho provato a dire che siamo tutti sulla stessa barca, che chi deve ricevere la merce a sua volta, forse, dovrà fare i conti con questo virus che sta bloccando l’economia mondiale, mica solo la singola azienda.
Ma non è facile capire, quando il proprio mondo è concentrato tutto lì. E soprattutto non è facile pensare che c’è chi in questo momento sta peggio… per lo meno di salute.
Esiste solo la propria realtà. Quella degli altri può anche andare a farsi friggere.
Altro esempio, sempre su Twitter: una scrittrice informa i suoi lettori che la presentazione del suo libro fissata il giorno tale è annullata a causa del blocco di tutti gli eventi. Grande rammarico per l’evento annullato, che aspettava da tempo, ma non una parola per chi si sta ammalando o morendo a causa del virus (e di chi non l’ha saputo gestire). Come se non esistesse altro che quell’incontro annullato.
Altro esempio: una coppia doveva partire per una crociera e maledice le misure restrittive. Anche in questo caso nessuna menzione a chi sta soffrendo e forse morendo. Solo dispiacere per la rinuncia a qualcosa di programmato da tempo.
Altro esempio: tre coppie di amici sabato sera dovevano uscire a mangiare la pizza, ma abitano vicino a una delle zone dei focolai accertati. Rinunciano? NO!
“Ma allora si ferma la vita”, è il commento.
In effetti, se metti sul piatto della bilancia una Bella Napoli con doppia mozzarella e la salute, tua e di tanti altri, la scelta è bell’e fatta: “Prenoti tu un tavolo per sei?”
Sono tanti i commenti “spaventati” o infastiditi di chi si vede obbligato a rinunciare a qualcosa che in realtà, di fronte al valore della vita, è meno che effimero.
In proposito mi viene in mente quando qualcuno, davanti alle prove evidenti dei danni alla salute causati dal consumo di carne, e delle sofferenze degli animali che comporta, mi dicono: “Ma allora che cosa si mangia?” Oppure: “Io alla bistecca non rinuncio”.
Mi chiedo a che punto sia arrivato il nostro livello di egoismo e di indifferenza, il nostro individualismo spinto all’ennesima potenza. Quanto spessore abbia raggiunto la corazza che ci siamo fatti per proteggere il nostro piccolo mondo e impedire anche solo di essere sfiorati dal mondo degli altri. Quanto, pur illudendoci di essere collegati col mondo ed eternamente “connessi”, viviamo in realtà ripiegati sul nostro ombelico e non siamo capaci di vedere al di là di quello. E quante occasioni invece sprechiamo di provare e dimostrare sincera compassione verso il prossimo e di darle corpo con un atteggiamento meno egoriferito. Quante occasioni per rinunciare a ciò che non conta o conta meno, per riappropriarci della nostra umanità e migliorare la nostra capacità di adattamento, come il mondo in cui viviamo ci chiede.
Ecco perché penso che la tragedia che stiamo vivendo potrebbe diventare l’occasione per farci delle domande e capire il valore della rinuncia. Che non sempre è privazione, ma a volte è arricchimento.
Diana Lanciotti
Un commento
Paola
Brava Diana a sottolineare” il valore della rinuncia” in pochi , secondo me, ne conoscono il vero significato. Rinunciare vuol dire arrendersi e nell’orgoglio e arroganza comune è un verbo che non viene contemplato.
Non voglio sembrare di parte ma in questi giorni mai si è parlato del sacrificio che la categoria che raggruppa medici, infermieri e tecnici sanitari stanno facendo. Siamo in prima linea davanti ad un nemico ancora abbastanza sconosciuto. Molti dei casi positivi appartengono a questa categoria. Eppure siamo presenti, chi era in ferie a rinunciato, chi doveva prendersi una piccola vacanza ( la sottoscritta) probabilmente rinuncerà ecc.. Lo si fa per noi ma anche per gli altri.
Sono orgogliosa di conoscere il vero valore della rinuncia e come dici tu è un arricchimento.
Ciao Paola