È una colpa amarli troppo?
Signora Diana,
scrivo di un grande dolore comune a chi, vivendo con gli animali, si trova a prendere decisioni, scelte che risultano a volte non esssere giuste per chi ami.
Ho vissuto con la gatta Minnie per 15 anni, lei era una gatta molto discreta e l’accompagnava sempre il suo alone di mistero in quel suo meraviglioso sguardo che ricordava l’essenza di ogni cosa.
Da circa 2 anni le sue pupille si erano ingrandite. Era diventata cieca, il medico della clinica non ha approfondito con esami diagnostici perchè riteneva che qualsisasi problema fosse (esito di un ictus, malattie degenerative) non si sarebbe potuto intevenire.
Lei era cambiata, nel senso che era sensiblissima ai rumori, si spaventava facilmente ed era più affettuosa del solito. Poi proprio un anno fa , dopo un paio di mesi un cui beveva un po’ di più e mangiava meno (ha sempre sofferto di gastroenterite e le analisi anche se non proprio recenti erano negative) improvvisamente non ha più mangiato e stava male.
La diagnosi è stata di grave insufficienza renale. Ogni giorno io e mio marito la abbiamo accompagnata alla clinica per la flebo. Dopo una lieve speranza invece la situazione è precipitata.
Io ero sconvolta, ed essendo contraria alla eutanasia mi stavo informando il più velocemente possibile su ogni alternativa per farla morire anche facendola soffrire il meno possibile, ma in casa sua.
Per non stressarla ulteriormente, ho deciso di tenerla anche la notte in ambulatorio prima di portarla definitivamente a casa. Quel pomeriggio non avrei voluto staccarmi da lei, così diceva il mio cuore che provava un dolore indescrivibile.
Lei è morta la mattina successiva (così mi hanno riferito) mentre faceva l’ultima flebo.
Non mi perdonerò questa morte nella gabbia, non perdono il fatto di avere già da tempo percepito (ma non cambiato staff medico) che quei medici non erano compassionevoli nei confronti di un essere morente (come la toccavano e come ne parlavano con noi) e ho seri dubbi sulle diagnosi e terapie.
Oltre al dolore immenso per la sua perdita convivo con il rimorso e ho messo in discussione quanto umanizziamo gli animali quando si decide di unire le proprie vite.
Dopo circa 10 mesi ho deciso di prendermi cura ancora di un gatto che però avesse particolarmente bisogno. Avrei voluto dare un po’ di affetto ad un animale già anziano, ma mio marito non si sentiva pronto a vedere morire a breve un altro essere; così quando vidi la foto del gattino Rey, di due mesi abbandonato e cieco, capii che lui era Ariele, il gattino che aspettavo. Un gattino bellissimo dolce, intelligente e vivace come neanche fosse cieco. Non ho più voluto tornare alla clinica precedente e mi ero ripromessa di scegliere un medico singolo di cui avevo avuto il nome.
Il gattino era però già sotto cura dalla volontaria che lo aveva raccolto presso un’altra clinica dallo specialista oculista. Dopo un mese, purtroppo ho lasciato fare il vaccino: il giorno successivo lui ha smesso di mangiare e aveva la febbre.
Io ero tesa e sgomenta, ma dopo una settimana di ogni tipo di analisi, cure e anche speranze è morto, anche lui in una gabbia pieno di aghi e medicine.
Penso che bisogna aprire il proprio cuore per unire la propria vita con quella di un animale, però anche i medici di cui si ha bisogno devono rivedere il poprio ruolo, andare oltre gli interessi delle case farmaceutiche e considerare l’evento morte un evento che non va cancellato.
Io del resto sto navigando senza rotta in questo dolore che la morte di un essere amato porta con sé.
E non so se e dove farò scalo questa volta.
Grazie di cuore.
Miriam
(clicca su “continua” per leggere la risposta di Diana)
Carissima Miriam, purtroppo è sempre difficile accettare la morte di un essere tanto caro e a volte, anche se si è fatto di tutto per evitarla, i sensi di colpa (il più delle volte ingiustificati) affiorano, forse per una ricerca di “distrazione” dal dolore in sé. Forse mettersi di fronte a sé stessi e accusarsi è un modo, del tutto inconscio, per cercare di uscire dal profondo del proprio dolore.
Io non credo che lei abbia nessuna colpa, né per Minnie né per Rey-Ariele. Lei ha fatto, come facciamo tutti noi che amiamo tanto i nostri animali, tutto quanto poteva per salvarli. E’ stato l’amore, oltre alla fiducia, a spingerla nelle sue decisioni nelle quali non trovo nessuno sbaglio.
In quanto ai medici, su quelli per umani avrei anch’io da dire la mia (per triste esperienza personale), ma su quelli per gli animali non ho riscontri negativi come i suoi. Quindi non posso che limitarmi a prenderne atto e, pubblicando questa sua lettera, mi auguro che se nella categoria c’è qualcuno che commette gli errori che lei gli ascrive abbia modo di riflettere e modificare il proprio atteggiamento e i propri comportamenti.
Per fare il medico (degli uomini o degli animali) ci vuole innanzitutto amore. Amore per la vita (propria e altrui) e poi tanto tanto rispetto (per sé e per il prossimo). Quando subentrano gli interessi, la stanchezza, gli automatismi (anche se si tratta di una difesa contro la sofferenza a cui si assiste) allora forse è il caso di fermarsi un attimo a riflettere, per analizzare se la spinta che ci ha portati a percorrere un certo cammino professionale è ancora la stessa, se i valori in cui credevamo all’inizio sono ancora dentro di noi ad animarci. Se non è così, se le cose sono cambiate, meglio cambiare.
Certo, non è facile, perché ogni lavoro alla fine comporta una forma di “automaticità”, nel senso che subentrano degli automatismi mentali e gestionali che, almeno agli occhi di chi osserva, sembrano impoverire e ridurre a puro mestiere una professione che va fatta innanzitutto col cuore.
Non so, sto riflettendo a voce alta e non ho una soluzione da offrirle. Ho solo tanta comprensione per il suo dolore e la speranza che presto venga mitigato dall’incontro con un altro esserino che abbia bisogno del suo amore che, visto che c’è ed è tanto, non deve restare chiuso dentro di lei.
Aspetto sue notizie.
Un carissimo saluto
Diana