Buono, il vitello…
Come tutte le guerre, anche quella tra carnivori e vegetariani è alimentata da chi ha interesse che le due parti non dialoghino, per continuare a non capirsi e scontrarsi, rimanendo sulle proprie posizioni. Invece riflettere insieme si può.
Dopo quasi 30 anni che non mangio carne e quasi altrettanti che non mangio pesce, c’è ancora chi tenta di riconvertirmi all’antica “fede” carnivora. Chi lo fa “tentandomi” invano con ricette gustosissime (non è che mi sia scordata il sapore che ha un filetto al sangue o un calamaro alla griglia, di cui andavo ghiottissima), chi sciorinandomi i danni di un’alimentazione “incompleta”, chi facendomi notare ciò di cui io per prima sono consapevole: che il mio “sacrificio”, le mie “rinunce” non saranno mai in grado di cambiare il mondo. Tutto no, ma almeno un pezzettino sì.
Persino tra i miei amici, seppure io eviti accuratamente di ergermi a detentrice della verità e non li abbia mai redarguiti per ciò che mettono nel piatto (e nello stomaco), ce ne sono alcuni che disapprovano la mia scelta reputandola una stravaganza, un capriccio e so che tra di loro discutono sul modo di… farci tornare sui nostri passi. Me e mio marito, tutti e due. Perché la cosa bella è che mio marito la pensa esattamente come me. Anzi, è stato lui il primo a prendere la decisione di non mangiare più carne, portandomi a riflettere e modificare le mie abitudini alimentari.
Ed è piuttosto bizzarro che chi mangia carne per abitudine voglia convincere me, che invece non la mangio per scelta. Una scelta consapevole, tutt’altro che avventata, non di certo operata con leggerezza ma documentandomi, studiando, riflettendo, e solo alla fine ascoltando il cuore anziché lo stomaco.
Quando qualcuno mi chiede il perché della mia decisione, cerco di rispondere in modo razionale, esaustivo, con argomentazioni che partono dalla salute per arrivare all’etica. Evitando di assumere toni o atteggiamenti fanatici da guerra di religione (carnivori vs vegetariani e viceversa) che lascio volentieri a chi al confronto civile e costruttivo preferisce lo scontro.
Proprio oggi, però, ho scaricato delle fotografie scattate un paio di settimane fa, quando durante un giro in campagna mi sono fermata a osservare un gruppetto di mucche al pascolo. Tra queste, una bella mucca rossa ferma in mezzo al prato che muggiva in direzione di un vitello poco lontano da lei. Sembrava, e in effetti era, un richiamo. Stranamente, anziché muoversi verso di lui, ha aspettato che fosse lui, ballonzolando sulle sue zampette lunghe e magre, ad avvicinarsi.
Li vedo ancora, come se fossi lì. Lui trotterella festante e quando la raggiunge i loro musi si toccano, simulando qualcosa che assomiglia molto a un bacio. Poi incomincia a leccarle un orecchio, e mamma mucca va in estasi e, come si vede in una foto che ho ingrandito, chiude addirittura un occhio in un’ espressione di totale goduria. La faccenda va avanti per qualche minuto, con tanto impegno da parte del vitello come se nient’altro contasse a questo mondo. E forse per lui, in quel momento, è così davvero. Quando si dice vivere l’attimo presente credo che si intenda qualcosa di simile.
Poi il vitello smette di leccare la madre e strofina il muso sulla sua testa, quasi incastrandosi tra le corna. E stavolta tocca a lui chiudere gli occhi, con aria beata.
Vanno avanti così per diversi minuti, procurandomi una sensazione di serenità e dolcezza struggenti: davanti a me c’è una mamma che si gode le coccole del proprio figlio, e il fatto che si tratti di una mucca e un vitello anziché di una donna con il suo bambino non toglie nulla alla tenerezza del momento.
Ecco, al di là di tanti discorsi tecnici, razionali, al di là di tutte le spiegazioni che ho dato in questi anni, da oggi la risposta a chi ancora mi chiede o si chiede come mai non mangio carne sarà in queste foto: foto che parlano di amore, di sentimenti, di gioia.
Immagini che con il tipo di vita che ormai viviamo, avulsi dalla natura e sempre più concentrati sulla tecnologia e sulla realtà virtuale, è raro poter vedere. E non vedendole facciamo finta di non sapere. Non sapere che gli animali sono creature “senzienti”, come si dice con un termine di recente utilizzo per definire esseri in grado di provare emozioni, come la gioia, il piacere, la paura e il dolore. Esistono documentazioni scientifiche in quantità a dimostrarlo, anche se basterebbe osservare il rapporto tra madri e figli di ogni specie animale per rendersene conto.
Ma ormai il nostro rapporto con gli animali che non siano i cani e i gatti di casa è praticamente inesistente. La carne non viene più “autoprodotta” tirando il collo alla gallina o tagliando la gola al maiale, come si faceva quando gli animali erano allevati da chi li consumava e proprio per questo motivo conosceva la fatica di farlo e nutriva nei loro riguardi una forma di rispetto e gratitudine per il sacrificio a loro richiesto per cibarci. Ora il rispetto e la gratitudine sono scomparsi, perché il “lavoro sporco” di allevare e ammazzare gli animali da cibo l’abbiamo delegato ad altri, così possiamo far finta di non sapere.
Tutto avviene, come prima e ben peggio di prima, lontano dai nostri occhi.
È così per gli allevamenti intensivi, dove gli animali sono costretti a ritmi di vita e di crescita insostenibili, che causano sofferenza e malattie agli animali stessi e anche ai consumatori, che inconsciamente mangiano carne intrisa di dolore, sostanze tossiche e tossine. E dove non assisteremo mai a scene come quella che ho fotografato, perché lì i vitellini vengono separati dalle mamme, sfruttate come riproduttrici a getto continuo e uccise quando sono sfinite e inservibili. Di solito entro i 4-5 anni, dopo una vita infame.
Questo vale per le mucche da latte, mentre i bovini da carne vengono lasciati vivere al massimo fino a due anni e mezzo. I vitelli, che dal consumatore sono erroneamente considerati “carne pregiata”, per l’industria del latte sono semplicemente “scarti” e perciò vengono eliminati, o dovrei dire trucidati, a 6-8 mesi.
In natura una mucca vivrebbe fino a 20 anni.
Il tragico destino di questi esseri derelitti si compie nei macelli, ben lontano dalla vista, dalle orecchie e dalle coscienze dei consumatori, e poi ci pensa l’industria della trasformazione a cancellare le tracce di ciò che erano, in vita, tutti quegli animali uccisi per finire sulle nostre tavole. Non c’è più nessuna coscienza dei passaggi intermedi: cioè che la carne prima di arrivare nei piatti ricopriva le ossa di un animale vivo, che è stato ucciso, macellato e confezionato (a volte anche precotto) per soddisfare i palati dei consumatori.
Per persone che vivono lontane dall’ambiente rurale non è facile collegare quel pezzo di arrosto o quella fetta di prosciutto o di mortadella con l’animale (un animale vivo e vegeto!) a cui apparteneva.
È così che si genera il grande inganno, da cui scaturisce l’indifferenza verso le sofferenze degli animali di cui ci si ciba. Un doppio inganno, generato dall’industrializzazione della produzione della carne e dalla pubblicità, che ci propina immagini di persone gioiose mentre mangiano salumi, arrosti, cotolette, tonni in scatola, senza mai associare i “prodotti” che consumano alla loro origine, senza ricordare che la fettina di salame che oggi mangiano tanto allegramente un tempo era un maiale vivo e vegeto (animale intelligentissimo, tra l’altro).
Ma non se ne parla, perché i soldi spesi in pubblicità dai produttori di carne e derivati della carne chiudono tutte le bocche e fanno assopire tutte le coscienze, tanto che trovare un programma televisivo o un articolo di giornale che svelino il grande inganno e la pericolosità dell’alimentazione carnivora è una rarità.
A nessuno interessa realmente della salute pubblica. Mentre a tanti interessa la salute dei portafogli, che più sono pingui meglio è.
Ci sarebbe da parlarne per giorni, mesi. Ho scritto addirittura un libro sull’argomento: La vendetta dei broccoli, un “giallo “vegetariano” dove cerco di far riflettere sul fatto che per nutrirsi non c’è bisogno di ammazzare esseri viventi.
Stavolta invece lascerò che siano le immagini a parlare. Così come è successo anni fa, dopo l’incontro con quel gregge di pecore e agnellini che mi diede lo spunto per la campagna di Pasqua “Lasciamoli vivere”, forse anche queste foto diventeranno il fulcro di una campagna di sensibilizzazione. Perché se si vuole continuare a mangiare carne la si mangi, ma almeno non si faccia finta di non sapere che anche gli animali provano sentimenti, e il legame di mamma mucca col suo vitellino non è così diverso da quello tra una donna e il suo bambino.
Qualcuno si indignerà per il paragone? Problemi suoi.
Diana Lanciotti
P.S. Solo guardando le foto di mamma mucca col suo vitellino, ho capito perché lei è rimasta ferma in mezzo al prato ad aspettarlo: aveva le zampe anteriori legate tra di loro. Una pratica crudele, che oltretutto non credo sia permessa. Mi informerò.