Scrittura (idee, consigli)

Un’opera inedita

Cara Diana, dopo aver letto i Suoi libri mi sento un po’ inadeguata, però amo anch’io scrivere e vorrei tentare di pubblicare qualcosa. Ho scritto la storia mia e del mio gatto Oscar, un personaggio a mio avviso piuttosto originale. Ora lui non c’è più e ho scritto questa storia per ricordarlo per sempre e per farlo conoscere a tante persone.
Si parla di noi, della vita che abbiamo condiviso, delle nostre baruffe e delle rappacificazioni e un po’ sono io a raccontare, un po’ è Oscar. Fino alla fine. Allora sono solo io a raccontare…
L’ho fatta leggere a un paio di amici che si sono divertiti soprattutto leggendo nero su bianco episodi condivisi o che conoscevano già. E poi alla fine hanno pianto sapendo quanto ero affezionata a Oscar.
Ora, io vorrei proporlo a Lei per un giudizio. Pensa che sia possibile? E poi vorrei sapere se è Lei a leggerli, i manoscritti. Mi piacerebbe avere un Suo giudizio, proprio il Suo. Prima che lo mandi può darmi qualche consiglio?
E poi vorrei sapere: anche voi chiedete un contributo per la pubblicazione?
Con stima

Angela

(clicca su “Leggi tutto” per leggere la risposta di Diana)

Cara Angela, che coincidenza. Proprio oggi ho risposto a una signora che alcuni mesi fa ci aveva inviato un suo dattiloscritto. E’ una cosa carina, che parla del suo gatto e racconta, appunto, della loro vita insieme raccontata dal gatto.
Lei mi chiede qualche consiglio, ma mi è difficile darglielo senza aver prima visionato la sua opera. Facciamo così: le riporto parte della risposta che ho dato alla signora A. citata e che, credo, potrà esserle di qualche aiuto, in quanto racchiude anche consigli generali (i miei consigli: non è detto che valgano come Vangelo, però), che secondo me si adattano in linea di massima a ogni opera di narrativa.
Una cosa che ci tengo sempre a sottolineare è che noi scriviamo per gli altri, non per noi stessi. Certo, facciamo una cosa che ci piace, che ci gratifica, che ci fa sentire realizzati. Ma nel momento in cui decidiamo di pubblicare ciò che abbiamo scritto, dobbiamo, come mi disse un editore parlando di tanti pseudointellettuali con la puzza sotto il naso, “venir giù dal pero”, essere cioè comprensibili, accessibili, non sentirci superiori a chi ci legge solo perché invece che saper far di conto sappiamo mettere insieme qualche frase e raccontare una storia. Detto questo, le riporto parte della risposta alla signora A.:

“Premetto che sono del parere che l’idea sia molto carina. Il mondo visto attraverso gli occhi di un gatto è (sarebbe) affascinante. Non per niente ho pubblicato con entusiasmo “Mondo cane” di Elena Grassi, che parla proprio del mondo visto con gli occhi di un cane. Spero l’abbia letto. E’ davvero un bel libro, che fa capire tante cose.
Spiega, affascina, insegna, diverte, fa riflettere.
Per quanto riguarda il suo libro, secondo me manca qualcosa. Almeno uno o anche più di uno di questi elementi: spiegare, affascinare, insegnare, divertire, far riflettere.
Carina, ripeto, l’idea, solo che non è risolta in modo convincente. Sembra una narrazione fine a sé stessa: non è abbastanza umoristica da far perdonare la narrazione di episodi puramente autobiografici (quando lo si fa si deve essere addirittura esilaranti, pena far sentire escluso e scornato il lettore, che non si sentirà coinvolto e non capirà il motivo per cui l’autore ha scritto certe cose così personali). Anche in questo caso la invito alla lettura di un libro: “Il gatto che venne dal freddo” di Deric Longden, edito da Paco Editore, che è un ottimo esempio di libro autobiografico che coinvolge e diverte.
Alla base di tutto ci sta la complicità che si riesce a creare con il lettore. E purtroppo qua manca.
Lo stile è un po’ troppo “di maniera”. Sembra troppa l’attenzione rivolta a ricercare parole e frasi giuste, a effetto, rispetto alla ricerca di un registro e un tono più spontanei (quindi più coinvolgenti). Il tutto a scapito del contenuto, che sembra in subordine rispetto alla forma.
Scrivere bene, in narrativa, non significa solo e tanto usare termini appropriati e magari inusuali, quanto creare un mix ben congegnato tra forma e contenuto, senza mai tralasciare di coinvolgere il lettore. Che non è mai interessato al ruolo di semplice spettatore, ma vuole essere preso per mano e condotto nella storia. Palpito, partecipazione, emozione, si aspetta. E dobbiamo darglieli, sennò tanto vale che scriviamo per noi stessi. Ma allora non ha senso pensare di pubblicare.
Anche perché ormai c’è sempre meno tempo per leggere e quando si riesce a farlo si “pretende” che qualcosa resti: un insegnamento, un batticuore, un sorriso, una lacrima, una risata, un ricordo…
Tutto questo, noti bene, non è affatto una stroncatura.
Val la pena di lavorarci. Io eliminerei le parti troppo “personali”, dove viene esasperata quella che sembra una sorta di antipatia o incomprensione tra lei e il gatto, senza però che ci sia il supporto dell’ironia a stemperare il tutto. Privilegerei invece le considerazioni più generali o episodi particolari, calcando un po’ la mano sull’aspetto “comico” della faccenda. Se proprio vuole mantenere la parte “personale”, ci metta qualche aspetto di ironia, che ora purtroppo manca.
E poi cerchi di “sprecarsi un po’ di più”. Facciamo l’esempio della chiusura. Sembra che abbia paura di, appunto, sprecarsi. Non è un testo pubblicitario, quello che ha scritto, dove ogni parola va pesata. Non dico di usare tante parole, però almeno il minimo necessario per arricchire e rendere esaustivo un concetto. Per creare un minimo di emozione, che secondo me è essenziale. Soprattutto in un libro che parla di animali e dove il lettore (che senz’altro è un amante degli animali) si aspetta simpatia, emozione.”

Ecco, credo che ciò che ho scritto alla signora A. valga anche per altri scritti. Ne ricevo tanti che si limitano a descrivere la vita di tutti i giorni di un cane o di un gatto, magari partendo dalla sua morte per andare a ritroso. Capisco che si abbia voglia di rendere partecipi altri del proprio dolore (l’ho fatto anch’io con il libro su Boris), però bisogna considerare che chi ci legge non ha voglia di leggere una cronaca sterile o di essere “usato” come spalla su cui piangere. Dobbiamo dargli di più, un valore aggiunto che è dato proprio dalla nostra capacità di non parlare solo a noi stessi, o per noi stessi, per sfogarci o rendere omaggio alla memoria dei nostri amati cani o gatti. Dobbiamo, lo so che mi ripeto, affascinare, coinvolgere, divertire, emozionare, far riflettere.
Per quanto riguarda la lettura delle opere che arrivano a Paco Editore, la prima valutazione viene fatta dai nostri consulenti editoriali. Se il responso è positivo la palla passa a a me.
Infine: no, Paco Editore non chiede NESSUN CONTRIBUTO agli autori.
Si guardi bene da quelli che lo fanno. Ci sono un sacco di profittatori che speculano sulla “voglia di pubblicare” così diffusa e ne hanno fatto il proprio business. Dopo aver spennato l’autore (arrivano a chiedergli anche parecchie migliaia di euro) e avergli promesso mari e monti (una distribuzione seria e capillare e un’efficace promozione), in realtà stampano al risparmio, con qualità scadente, e cercano di rifilare all’autore quante più copie possibili, magari facendogliele anche pagare…
No, noi non chiediamo nessun contributo, ma cerchiamo di pubblicare opere che valgano e che incontrino il favore dei lettori. Pubblichiamo pochi libri, come lei saprà, proprio perché per noi l’editoria non è un business da farsi sulle spalle di autori ingenui e sprovveduti.
Mi auguro che questa chiacchierata possa esserle utile per, eventualmente, riconsiderare la sua opera e potercela inviare dopo una rilettura e magari una riscrittura critica.
Scrivere un libro, in definitiva, è un lavoro “sartoriale”, di taglia e cuci.
Non abbia fretta. Legga, rilegga, modifichi, tagli. E’ il mestiere dello scrittore. Poca arte, tanta fatica.
Un caro saluto

Diana

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