Le parole costano
Gentilissima signora Diana, le invio il mio manoscritto, faticoso frutto di due anni di instancabile lavoro per dare finalmente vita all’idea che mi venne ispirata da un orribile fatto di cronaca accaduto lungo le verdeggianti rive del fiume xxx e che occupò giustamente intere pagine di numerosi giornali locali e anche nazionali. Ero allora una giovane e inesperta ragazza e la vicenda mi colpì profondamente come un pugnale acuminato che si accanisce sulle carni. Ci è voluto tempo affinché superassi lo choc delle notizie che avidamente leggevo sulla stampa sempre abbondante di particolari e solo superatolo sono riuscita a mettere su carta, non senza innumerevoli ripensamenti, la storia ma anche i miei pensieri che mi hanno accompagnata come bianchi fantasmi per tutta la durata della mia adolescenza e anche oltre quella.
L’opera è a metà tra il giallo e la cronaca e il diario intimistico scritto dagli occhi innocenti di una ragazza: io.
Sono convinta che troverà l’idea interessante. Io ce l’ho messa tutta per scrivere un bel libro che se pubblicato da una buona casa editrice con la dovuta promozione potrà vendere sicuramente diverse migliaia di copie.
La informo subito però che non intendo pagare per la pubblicazione.
Aspetto il suo anelato responso.
Con sincera stima, i miei più distinti saluti
Lettera firmata
Gentilissima signora,
innanzitutto la ringrazio per aver pensato a Paco Editore che, e lo chiariamo subito, agli autori non chiede contributi per la pubblicazione.
Tutte le opere che riceviamo in visione sono prima di tutto valutate dai nostri consulenti editoriali e solo dopo il loro benestare passano a me per la valutazione finale. Di solito per avere la risposta dai consulenti servono dai tre ai sei mesi.
Nel suo caso ne sono passati quattro, e la risposta purtroppo non è positiva. Non del tutto, cioè. Nel senso che la storia in sé sarebbe intrigante, ma la forma con cui è narrata è considerata del tutto fuori registro.
Mi sono presa qualche giorno per fare alcune verifiche (di fronte a un NO non drastico mi sento in dovere di farlo) e ho riscontrato in effetti una scrittura ridondante di parole e frasi che rendono, mi scusi, vecchio e pesante l’incedere. Del resto anche in questa lettera di presentazione si nota uno stile sovraccarico.
Lei non è così anziana come invece potrebbe sembrare leggendola. Ed è un peccato che abbia scelto questo modo di scrivere così ampolloso e demodé, facendo largo uso di aggettivi, avverbi, frasi involute. Insomma, quando potrebbe scrivere una frase di cinque parole, lei ne scrive almeno il doppio, se non di più.
Anche un concetto che potrebbe esporre in mezza pagina, o forse meno, lei lo esprime in due, tre pagine. E alla fine ci si ritrova stanchi per questo percorso irto di ostacoli (avverbi, aggettivi… insomma parole inutili).
Troppi dettagli appesantiscono la narrazione. Magari per lei hanno significato, ma per il lettore sono solo delle distrazioni, delle deviazioni dalla trama, che invece non dobbiamo mai perdere di vista. Sennò si rischia di deragliare. Dobbiamo sempre ricordare che, nel momento in cui decidiamo di scrivere per pubblicare, non scriviamo più per noi ma per chi ci leggerà, che diventa così il nostro… datore di lavoro.
Lo spreco di parole non è mai gradevole, per chi legge. Se ho bisogno di cento parole per esprimere un pensiero che con dieci sarebbe già chiaro (e raggiungerebbe più facilmente il lettore) vuol dire che ho ancora un po’ di confusione da riorganizzare nella mia testa.
Non è che se usiamo più parole e ricamiamo le frasi con mille ghirigori rendiamo più importante il nostro scritto. Anzi. Rischiamo semplicemente la pedanteria.
Amo spesso ricordare quel gran genio della scrittura che è Stephen King, che esorta ad… ammazzare i propri cari. Cioè tagliare, sfrondare: intere pagine, interi capitoli e tutte quelle parole di troppo, o troppo ricercate. Orpelli che rendono difficoltosa la lettura.
Bisognerebbe pensare alle parole come a qualcosa che ha un costo: più parole usiamo, più spendiamo. E ogni volta dovremmo rivolgerci la domanda: mi serve? O posso toglierla? Il senso è chiaro anche senza quell’aggettivo o quell’avverbio?
Io stessa, mentre le sto rispondendo, ho tagliato almeno una parola su quattro.
Viene spontaneo caricare il testo di aggettivi o avverbi, nella convinzione di rendere più efficace il messaggio. In realtà non è così.
Al lettore non possiamo impedire di usare anche la propria fantasia, oltre alla nostra. Di metterci del suo. Se gli diciamo tutto noi, se lo costringiamo in una gabbia, seppur dorata, va a finire che non lo coinvolgiamo.
È come se gli mostrassimo una bella tavola imbandita di ogni ben di dio, ma senza pensare che è a dieta, e così facendo gli procuriamo solo fastidio. Se non nausea.
Spero di essermi spiegata.
Vuole provare a riprendere in mano il suo romanzo e a lavorarci con l’obiettivo di renderlo più snello, leggero e moderno? In altre parole: più interessante, più attraente, più digeribile per un lettore che non ha nessuna intenzione di abbuffarsi di parole e dettagli (soprattutto se inutili).
Vuole provare a… risparmiare? Pensi, appunto, che ogni parola costa. Vedrà che alla fine avrà risparmiato. A lei un’inutile fatica. Al lettore, un’indigestione.
Mi faccia sapere.
Cordialmente
Diana Lanciotti